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L’ambito prevalente di studio, di ricerca e di attività legale è il diritto antidiscriminatorio applicato al diritto del lavoro ed al diritto sindacale.
Il diritto antidiscriminatorio di nuova generazione rappresenta l’attuazione del principio di uguaglianza sostanziale sancito dall’art.3, comma 2, della Costituzione Italiana.
Il generale principio di uguaglianza UE è analogo a quello previsto da molte Costituzioni degli stati membri, declinato nei due diversi aspetti dell’uguaglianza e della non-discriminazione.
Il passaggio da una nozione di uguaglianza in senso formale ad un principio di uguaglianza in senso sostanziale, con l’enucleazione esplicita del concetto di discriminazione indiretta e l’introduzione delle azioni positive, è il risultato di un lungo percorso nel quale grande rilievo ha avuto la giurisprudenza dei Giudici di Lussemburgo.
Partendo dalla parità retributiva tra uomini e donne, il principio di uguaglianza è andato assumendo un ruolo di spicco nella costruzione di uno jus commune ed oggi rappresenta la lente di ingrandimento attraverso la quale ogni nuovo intervento legislativo interno deve essere riguardato per verificarne la cd. “compatibilità comunitaria”.
Il giudice nazionale è l’organo di base dello spazio giuridico europeo.
La “primazia”del diritto europeo sul diritto nazionale, unitamente all’effetto diretto ed all’obbligo di disapplicazione gravante sui giudici nazionali costituiscono oggi la chiave di lettura nodale per comprendere il rapporto e lo stato di salute del rapporto fra gli ordinamenti giuridici degli stati membri e l’UE.
Pochi però gli avvocati italiani che sfruttano l’opportunità del rinvio pregiudiziale in Corte di Giustizia.
Il Prof. Avv. Fabrizio Proietti, grazie alla sua altissima perizia e specializzazione, si avvale ormai ritualmente del rinvio pregiudiziale in CGUE, che rappresenta non un mezzo di impugnazione delle sentenze ma un vero e proprio procedimento incidentale attivabile anche ex officio in ogni stato e grado del giudizio.
Le forme di discriminazione su cui è intervenuto originariamente l’ordinamento giuridico a livello europeo, dal 1957, sono state le discriminazioni dovute alla nazionalità di appartenenza e quelle legate alla disparità di retribuzione tra uomini e donne. In seguito, gli interventi europei hanno investito tutte le forme di discriminazione (razza, età, handicap, convinzioni personali, religione, etnia, tendenze sessuali) con un impulso notevole proiettato negli ordinamenti giuridici degli stati membri dell’UE che si sono adeguati con interventi normativi interni specifici.
Sino all'approvazione della Carta dei diritti di Nizza, la protezione dei diritti fondamentali nelle Comunità europee (dopo il Trattato di Maastricht, Unione europea) fu quasi esclusivamente il prodotto della giurisprudenza della Corte di Giustizia.
La Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea (CDFUE), in Italia anche nota come Carta di Nizza, è stata solennemente proclamata una prima volta il 7 dicembre 2000 a Nizza e una seconda volta, in una versione adattata, il 12 dicembre 2007 a Strasburgo da Parlamento, Consiglio e Commissione.
Con l'entrata in vigore del "Trattato di Lisbona", la Carta di Nizza ha il medesimo valore giuridico dei trattati, ai sensi dell'art. 6 del Trattato sull'Unione europea, e si pone dunque come pienamente vincolante per le istituzioni europee e gli Stati membri e, allo stesso livello di trattati e protocolli ad essi allegati, come vertice dell'ordinamento dell'Unione europea. Essa risponde alla necessità emersa durante il Consiglio europeo di Colonia (3 e 4 giugno 1999) di definire un gruppo di diritti e di libertà di eccezionale rilevanza e di fede che fossero garantiti a tutti i cittadini dell'Unione.
Il diritto antidiscriminatorio è, pertanto, di matrice europea e di particolare interesse, per i casi processuali studiati dalla scrivente, sono, in Italia, i decreti legislativi n. 215 e 216 del 2003 di attuazione delle direttive sulle parità di trattamento (09.07.03).
Si tratta dei decreti attraverso cui sono state attuate nell’ordinamento nazionale la direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro e la direttiva 2000/43/CE per la parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica.
Ai sensi e per gli effetti dell’articolo 25, Discriminazione diretta e indiretta, Decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198, costituisce discriminazione diretta qualsiasi disposizione, criterio, prassi, atto, patto o comportamento, nonché l'ordine di porre in essere un atto o un comportamento, che produca un effetto pregiudizievole discriminando le lavoratrici o i lavoratori in ragione del loro sesso e, comunque, il trattamento meno favorevole rispetto a quello di un'altra lavoratrice o di un altro lavoratore in situazione analoga.
Si ha discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri mettono o possono mettere i lavoratori di un determinato sesso in una posizione di particolare svantaggio rispetto a lavoratori dell'altro sesso, salvo che riguardino requisiti essenziali allo svolgimento dell'attività lavorativa, purchè l'obiettivo sia legittimo e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari.
Per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro, invece, la tutela antidiscriminatoria è garantita, nello specifico, dal Decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 216 per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro.
Il principio di parità di trattamento senza distinzione di religione, di convinzioni personali, di handicap, di età e di orientamento sessuale si applica a tutte le persone sia nel settore pubblico che privato ed è suscettibile di tutela giurisdizionale secondo le forme previste dall'articolo 4, d.lgs. n. 216/2003.
In particolare, l’articolo 4, d.lgs. n. 216/2003 stabilisce che i giudizi civili avverso gli atti e i comportamenti di cui all'articolo 2 sono regolati dall'articolo 28 del decreto legislativo 1° settembre 2011, n. 150. In caso di accertamento di atti o comportamenti discriminatori, come definiti dall'articolo 2, si applica, altresì, l'articolo 44, comma 11, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286.
In sostanza, le controversie in materia di discriminazione sono regolate dal rito sommario di cognizione, ove non diversamente disposto, caratterizzato da celerità nei tempi e semplificazione istruttoria.
Il procedimento sommario di cognizione è stato introdotto nell'ordinamento processuale italiano dalla l. n. 69/2009, quale vero e proprio rito alternativo al processo a cognizione ordinaria, ispirato all'esigenza di rendere più celere la definizione delle controversie, nell'ambito dell'opera di semplificazione avviata dal legislatore negli ultimi anni e culminata con l'emanazione del d.lgs. n. 150/2011.
Il procedimento prevede che la conoscenza dei fatti ai fini della decisione venga acquisita attraverso un'istruttoria particolarmente semplificata, tale da assicurare una accelerazione dei tempi del giudizio (realizzando la finalità che sta, appunto, alla base dell'introduzione dell'istituto nell'ordinamento processuale) la cui concreta determinazione è rimessa alla discrezionalità del giudice, mentre sotto il profilo della cognizione, si ha pur sempre una cognizione piena delle domande e delle eccezioni delle parti.
Il rito sommario di cognizione è di particolare interesse per la semplificazione dell’onere della prova posto a carico del ricorrente; al ricorrente, infatti, è sufficiente fornire elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico, dai quali si può presumere l'esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori. Spetta al convenuto l'onere di provare l'insussistenza della discriminazione.
Il giudizio si conclude con una ordinanza attraverso cui il giudice può condannare il convenuto al risarcimento del danno anche non patrimoniale e ordinare la cessazione del comportamento, della condotta o dell'atto discriminatorio pregiudizievole, adottando, anche nei confronti della pubblica amministrazione, ogni altro provvedimento idoneo a rimuoverne gli effetti. Al fine di impedire la ripetizione della discriminazione, il giudice può ordinare di adottare, entro il termine fissato nel provvedimento, un piano di rimozione delle discriminazioni accertate. Nei casi di comportamento discriminatorio di carattere collettivo, il piano è adottato sentito l'ente collettivo ricorrente.
L’atto introduttivo nel procedimento sommario di cognizione innanzi al tribunale in composizione monocratica è il ricorso sottoscritto ai sensi dell’art. 125 cpc, con le indicazioni di cui ai numeri 1,2,3,4,5, e 6 e l’avvertimento di cui al n. 7, 3 c., dell’articolo 163 cpc: la costituzione oltre il termine previsto comporta le decadenze di cui all’art. 167.
Ai sensi dell’art. 702bis, il giudice designato fissa con decreto l’udienza di comparizione delle parti, assegnando il termine per la costituzione del convenuto, che deve avvenire non oltre 10 giorni prima dell’udienza; il ricorso unitamente al decreto di fissazione di udienza deve essere notificato al convenuto almeno 30 giorni prima della data fissata per la sua costituzione.
In sede di udienza, se il giudice ritiene di essere incompetente lo dichiara con ordinanza. Se ritiene che la domanda non rientra tra quelle di cui all’art. 702bis, il giudice dichiara il ricorso inammissibile. Se ritiene insufficiente l’istruttoria sommaria, il giudice fissa l’udienza ai sensi dell’art. 183 cpc.
Salvi i casi su menzionati, il giudice decide con una ordinanza provvisoriamente esecutiva, contro cui si può fare appello entro 30 giorni dalla sua comunicazione o notificazione.
Avverso l’ordinanza emessa a definizione del procedimento sommario di cognizione, l’appello va proposto con atto di citazione anziché con ricorso e, nel caso di erronea introduzione del giudizio di impugnazione, la tempestività del gravame va verificata con riferimento non solo alla data di deposito dell’atto introduttivo ma anche a quello di notifica dello stesso alla controparte, che deve avvenire nel rispetto del termine di trenta giorni previsto dall’art. 702 quater c.p.c. a pena di inammissibilità. E' quanto prevede la sentenza 7 febbraio 2018, n. 330 della Corte di Appello di Firenze (!), a fronte dell’incertezza normativa di cui all’art. 702quater cpc che, effettivamente, non indica il tipo di atto processuale attraverso cui presentare appello nel rito sommario.
La Corte d’Appello di Firenze rimanda al principio affermato dalle Sezioni Unite n. 2907/14, principio in base al quale, in assenza di una specifica previsione normativa per il giudizio di secondo grado, anche in ordine alla fase introduttiva, si applica la disciplina ordinaria di cui all'articolo 339 c.p.c. nel senso della proposizione dell'appello mediante citazione con quel che ne consegue (Cass. Sez. un. 2907/14 in motivazione: una volta introdotto il regime della appellabilità in assenza di una espressa indicazione da parte del legislatore non avrebbe potuto farsi riferimento altro che alle regole dell’ ordinario giudizio di cognizione e quindi giungere alla conclusione della necessaria introduzione del giudizio di appello nella forma dell'atto di citazione potendo il principio di ultrattività del rito operare solo nei casi di espressa previsione normativa) e trattandosi di regola non derogata dalla disciplina dell'appello sulla decisione di primo grado assunta con il rito sommario contenuta nell'articolo 702 quater c.p.c. (Cass. 14502/14).
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